La storia migliore che abbiate mai letto sull'Invidia, ha questo titolo
Non è per niente facile scrivere di invidia quando se ne
è stati le vittime principali. A nostro strano modo — noi poveri imbecilli di un
tempo che è stato e non tornerà più se non per prenderci a schiaffi — , abbiamo tutti ammirato
qualcuno fingendo molto bene che non ci importasse nulla dei suoi successi
o del fatto che, per dirne una mentre si è decisamente impegnati ad addentare
una galletta di mais di fronte alla TV che parla vivacemente in cucina e siamo
pertanto rattristati e soli, ci si ricordi con perfino troppa nitidezza di
quella volta in cui siamo andati insieme a giocare a tennis e lui era molto più
veloce ed efficiente nei colpi e persino più atletico sotto la doccia. Di
queste cose, posso assicurarlo, me ne intendo parecchio. Potete chiedere alla
polvere, o se preferite a qualche fallito di un certo talento che era partito
con l’idea di diventare un parlamentare o comunque qualcuno di importante
mentre adesso è costretto a truffare vecchi rincoglioniti vendendo catorci
destinati a fondersi in mezzo alla strada (cosa nient’affatto disdicevole e
anzi direi – qui dicendo più col dire che coll’anzi – una splendida metafora
della vita vissuta secondo la regola del coraggio e del calore). Non sono
nessuno di loro, io; almeno credo. Vorrei solo che a volte ci si domandasse chi
sono con la stessa cavolo di intensità con cui me lo chiedo io. Che io sappia, — o abbia sentito con la
parte migliore del mio cuore — questo era esattamente ciò
che poteva fare (voglio proprio esagerare, lo ammetto) una come mia mamma. Ma
gli altri no. Confesserei in altre circostanze che non di rado mi
trovo talmente depresso e privo d’affetto da gettarmi sul letto ancora sfatto
delle mie dormite eccessive (il sonno, si sa, è uno stato di regressivo
privilegio di ritorno alla buona e morbida infanzia) e di cingermi il petto da
solo giusto per illudermi come il migliore degli acrobati solitari di sapermi
abbracciare da solo. E a volte ci riesco, lo giuro. Altrettanto spesso potrei
confessare che mi càpita senza che io possa minimamente controllare il corso
degli eventi la fantastica evenienza in cui mi sento chissà perché in colpa
perché non sono mai stato in crociera e mi viene una tristezza immensa a
pensare a quelli che già ci sono stati — probabilmente pensionati
ben mantenuti nel loro corpo che gli decade addosso e lentamente con relativa
educazione e loro sono lì, sì, capite, lì sul ponte di un mostro navigante bianco
e blu come massimo e ultimo apice di un’esistenza fatta di lavori mediocri e
silenzi ostili. Io queste cose, lo giuro, fatico a capirle. Fatico veramente un
cazzo di tantissimo a capirle da quando ho l’età della ragione che se non vado
errato corrisponde a circa i venti mesi successivi ai miei primi successi a
bordo di una bicicletta rossa fiammante e con il cambio manuale invidiato un
sacco da tutti i miei finti amici del cortile. Erano bei tempi, no? Di solito, — non me ne vogliano i deboli
di stomaco che amano le storielle edificanti che iniziano con la
descrizione di una brezza mattutina e di una luce abbagliante che affetta il
buio della cucina — le mie storie funzionano
come le palle di un transessuale: all’inizio c’erano, solo che il suo
proprietario a un certo punto ha deciso di tagliarsele perché non
ci si trovava granché a suo agio. Si potrà pur dire che è stato il chirurgo.
Che lui da buon dottore col senso della parcella faceva solo il suo lavoro, e
che non si può fargliene una colpa se non è stato abbastanza motivato a cercare
di far cambiare idea al paziente impaziente di privarsi del proprio uccello. Non
è logico? L’ambiente per questo genere di fatti, questo genere di stile reso in
àmbiti di colore narrativo ed escatologicamente quanto mai rilevante in senso
più o meno designativo, sono in buona sostanza le storie che sono in grado di
raccontare io, o quella cosa mentale — quella “Cosa Brutta” — che mi pare di avere dentro
la testa o comunque piazzata da qualche parte all’interno del mio organismo
pluricellulare che non riesco a, né potrò mai, controllare perché
plausibilmente si tratta di una donna e non vuole saperne di obbedire alle mie
aspettative. Posso chiamarla mente, genio, anima. Autocarrozzeria con
tendenze poetiche. Ma comunque comanda lei e non c’è niente da fare se non
lasciarsi andare ai suoi sguardi di cupidigia e possessione. Mi sono spiegato?
Forse. In ogni caso vorrei che ci pensaste prima che inizi a raccontare la
storia di Marco e Chiara: Satana non è così cattivo come lo dipingono. È un
angelo, no? Ci hanno insegnato ad avercela con lui perché è caduto. Tuttavia
non mi sembra una cosa carina prendersela con chi è inciampato sui suoi
desideri di potenza… Be’, andiamo avanti e facciamolo convinti che alla fine
del tunnel troveremo qualcosa di quello che ci piace e conforta. Marco è uno
scrittore che vive abbastanza dignitosamente per l’appunto scrivendo recensioni
di libri che non sopporta perché a differenza dei suoi sono scritti bene e
quindi hanno valore e con l’aiuto più o meno segreto del padre che è quasi
milionario e ha una fabbrica di meccanica di precisione alla periferia di Modena
della quale è più orgoglioso di una montagna della sua neve. Chiara è più
brava, quasi geniale, scrive anche lei compulsivamente ma nessuno, neppure chi
le vuole bene, la legge e soprattutto capisce. Non ha mai trovato un editore e
anche se ha trentadue anni ancora si comporta come una ventenne che non vuole
saperne un cavolo di niente di Signora Necessità e sta tutta quanta ben immersa
e ben adagiata come una neonata nella morbida cesta della Realtà dei Suoi
Sogni. Vivono insieme e nessuno dei due si occupa della casa perché sarebbe
come ammettere che lo spazio che dovrebbero condividere insieme è degno di
essere mantenuto decentemente (e questo dispetto pare essere l’unica cosa che
hanno davvero in comune). Va detto che anche questa è una cosa brutta; non
moltissimo, per la verità… ma è brutta nel lato senso che se la casa fosse meno
sudicia, se i pavimenti brillassero di una luce di nitore e igiene, se il bagno
non fosse un gioco di inquietanti maculazioni estese fra polverosità e ruggine
allo specchio, se sotto al letto della camera non ci fossero pezzi di pane
preso a morsi e ciabatte di colori vomitevoli abbandonate e libri mai letti e
spiegazzati dalle suole di scarpe gettate via, se non ci fosse tutto questo
caos di dannazione e solitudini allargate a una mancanza di senso grande così
anche la loro esistenza in comune sarebbe senz’altro migliore, più degna e meno
insensata. Però quando si è giovani a queste strane cose da brave persone non
ci si crede né pensa. Perché è un formidabile equivoco. Si ritiene di esserne
immuni, fino a che la fame di normalità non ti trasmuta la faccia in quella di
gente spaventata e unta dai giorni sempre uguali. Fino a che dimenticherete di
aver sperato e lottato, e vi sentirete per tutto il tempo come ospiti comodi ed
emarginati nella migliore stanza di un hotel a cinque stelle con la reception
che vi fa sentire ancora più soli dicendovi buona sera in perfetta cortesia e
con lo sguardo dell’albergatore che intanto controlla oltre di voi se stanno
arrivando altri ospiti. È così, dopo tutto ciò che possiamo sapere. Perché non
rassegnarsi? Chiara ha i capelli scuri, gli occhi azzurri e prima di iniziare a
invecchiare anziché essere bella aveva un viso elegantemente sproporzionato e
il naso decisamente storto ed eccessivo. Una dea fattasi umana per farsi viva
alla volgarità del mondo. Somigliava a una divinità sudamericana, come se gli
Aztechi le avessero spruzzato un po’ di geni addosso prima che sua madre
partorisse, eppure quegli occhi grandi mondavano il viso di ogni sessualità
liquida e la trasformavano in una donna dal volto artistico e mai banale.
Marco, invece, no. Aveva la faccia da operaio offeso dalla vita e dalla
frustrazione: naso largo e bitorzoluto, occhi piccoli e scavati, mento
sfuggente e capelli bianchi come macchie
di farina su un tavolo da fornaio. A volte, seduto precariamente sulla tazza
del bagno con la finestra sul parcheggio usato dai sedicenni per rifornisi di
droghe e altri cosmetici per il buon umore, gli capitava di chiamare sua mamma
nel cuore della notte solo per farsi dire che era bello con lei che glielo
sussurrava a cornetta schiacciata contro il guanciale per non farsi sentire dal
marito che dormiva accanto (e che altrimenti si sarebbe incazzato a morte
aggredendo tanto lui che la moglie). Stavano dunque insieme l’uno attaccato
all’altro, come pezzi di un oggetto nato già rotto. Il giorno che Marco e
Chiara andarono insieme alla premiazione di uno dei suoi libri, “Il bello di
essere grandi”, Marco fece di tutto per non far sentire Chiara inferiore a lui,
così tanto che alla fine lei si infuriò, si mise a piangere e pestando i piedi
in una pozzanghera come una scolaretta offesa fece sciogliere tutto il
fondotinta che aveva in faccia facendola sembrare un clown da film horror
oppure una puttana picchiata da un esteuropeo con le mani sudate.
Per Chiara mettere il fondotinta era normale come per un
camionista ceceno recitare poesie con una margherita fra i capelli. Si era
impegnata, e il risultato era la sua rabbia. La stessa sera, poco più in là, a un
paio di isolati dal centro commerciale che per l’occasione aveva avuto la gaia
pretesa di fungere da centro di premiazione letteraria per scrittori mediocri
fra i quali Marco era senz’altro uno dei migliori e più preclari esemplari,
proiettavano una replica di Rocky. Marco ebbe la veramente pessima idea di
mettersi a raccontare a Chiara di quante volte avesse visto quel film da
bambino, e che gli pareva parecchio strano — lo disse arrotando molto le
due r , credendo che la cosa lo rendesse tenero ed autoironico— che adesso lo dessero al
cinema. Chiara non lo ascoltava nemmeno e cercava solo di immaginarsi come
avrebbe potuto tradurre la scena in parole. La sua voce era questa: “Sono sulla
strada come una prostituta troppo truccata e sento di essere sola anche se non
lo sono del tutto. Il buio, nonostante il suo coraggio nero da maschio
violento, non riesce ad avvolgere né me né quel deficiente di Marco perché
siamo troppo vicini alle luci elettriche, che invidio. Loro stanno lassù, ritte
e inesorabili a illuminare spietatamente noi piccoli insetti costretti al suolo
e alla nostra esistenza da ratti. Sono venuta solo per lui, cavolo. Solo per
lui, tutta in ghingheri, e per di più a fingere di ascoltare la celebrazione di
un altro dei suoi stupidissimi libri. Il mondo è crudele come un mitra. E io
morirò presto. Dio santo, perché non sono nata lampione? Che cavolo freddo,
santa la Maddalena!”. Marco naturalmente non si era accorto di nulla ma aveva
semplicemente notato che Chiara pareva essere da un’altra parte. Solo che non
ci aveva fatto molto caso: lei, da un’altra parte, per sempre e
inesorabilmente, pareva esserci nata dovunque fossero o andassero a cercare di
simulare un amore che non era mai nato e pure riusciva a morire ogni giorno.
Non riusciva ad averla tutta per sé e in fondo non gli importava. Sapeva che
era troppo strana per trovare qualcun altro disposto a sopportarla. Troppo
stana per sopportare anche solo sé stessa. Poco dopo rincasarono e lei, una
volta con i piedi sul pianerottolo a cercare l’ingresso e la chiave che
sferragliava nella serratura del portone, gli chiese se lui si fosse mai
chiesto cosa davvero lei pensava dei suoi libri. “No, tesoro. Mi vuoi bene e
questo mi basta”. Chiara trasalì sentendo una fitta lancinante ben in mezzo al
sedere per la tensione, poi fece finta di nulla e andò a fumare in terrazza
tirando dalla sigaretta con lo stesso spirito con cui avrebbe potuto ricaricare
un fucile a pompa. Da allora in avanti poteva solo fingere. Cos’altro mai le
riusciva meglio? Sua mamma glielo aveva sempre detto: gli uomini hanno i
muscoli, noi donne che possiamo avere? Un paio di giorni più tardi Marco passò
dal padre per invitarlo alla presentazione del suo libro. Un gesto che
preludeva ad abnormi frustrazioni e all’infernale evocazione di rapporti
ammalati da un’infanzia più irrisolta del mistero della morte. La fabbrica era
sporca, piena di operai stanchi e con la faccia di chi non vedeva l’ora di
arrivare a fine turno dimenticando che avrebbe significato assimilare la faccia
di chi aveva il terrore del turno che qualche ora più tardi sarebbe
ricominciato. Producevano perlopiù minuteria meccanica, e di questo Saverio, il
padre deluso, si faceva un gran vanto in ogni occasione spiegando tutte le
volte che era possibile usare la sua vociona in favore di un uditorio costretto
dalle circostanze (le cene a casa sua, per esempio: esperienze obbligatorie e
terrificanti per tutti gli amici della moglie; lui non ne aveva…) che senza
minuteria meccanica il mondo si sarebbe fermato. Sono le viti, le rondelle, i
bulloni… che tengono insieme il mondo. Se non ci fossero la tua auto cadrebbe a
pezzi come la vita da deficiente che ti sei costruito andando a vivere con
quella folle deficiente di Chiara. Se non ci fossero non potresti prendere il
treno, l’ospedale non potrebbe ricoverarti, non avresti un cellulare e non
potresti neppure vestirti perché forse non lo sai ma anche i vestiti per essere
fatti richiedono macchine che stanno insieme grazie a viti, bulloni, rondelle…
Saverio non aveva detto nulla di tutto questo ma il discorso risuonava come un
disco rotto dai calci dalla sua noia quando anche solo avesse guardato suo
padre per più di qualche secondo. E pure si domandava, fingendo di non saperlo,
perché nella sua magnificazione di viti e bulloni non avesse recriminato anche
sulle macchine tipografiche, che pure sono mostri meccanici e se stampano libri
è solo grazie alla minuteria… Mentre aspettava di fronte alla macchinetta del
caffè che l’uomo dalla grande autostima si degnasse di venire a salutare il
figlio iniziò a guardarsi le scarpe: erano un po’ troppo consumate, e lo
sgargiante marrone iniziale presente al momento dell’acquisto era diventato
nero come una fogna mentre le storpiature della pelle ricordavano quelle delle
rughe di una donna invecchiata male per colpa di una vita dissoluta. Siccome
Marco pensò tutto questo si illuse di avere le qualità di uno scrittore di
razza ma prima che potesse proseguire la perfida macchinetta del caffè, come se
fosse collegata all’indisponenza aggressiva e da arricchito del padre, gli
sputò una pisciata di simil sbobba marronastra all’altezza della patta. Cercò
immediatamente di guardare il lato positivo: e cioè, al lato giusto. Se quella
macchia sospetta fosse stata in corrispondenza delle natiche tutti lo avrebbero
preso in giro additando senza pietà l’incapacità del suo ano di deiettare
rifiuti biologici al momento opportuno. Invece era davanti, e questo era, come
dire, decisamente il lato positivo. Quando suo padre arrivò di fronte a lui non
lo guardò nemmeno in faccia e continuò a osservare con aria concentrata e
consentanea (una parola difficile che Marco aveva scoperto da poco) al suo
interlocutore un disegno tecnico che teneva aperto con ambo le mani di fronte a
sé. Marco cercò di trovare una posa naturale che gli permettesse di nascondere
l’alone di quasi-cacca di fronte all’uccello ma non gli riusciva: era troppo
difficile essere a proprio agio per uno scrittore fallito e un figlio
disprezzato in una fabbrica di meccanici rudi e rabbiosi comandati dall’Enorme
Padre. All’improvviso Saverio sibilò qualcosa in direzione del figlio. Non si
capiva se fosse più arrabbiato o più sprezzante. Non si capiva proprio.
-Che vuoi? Altri soldi, scommetto-
-No…-
-E allora parla, cazzo. Qui si lavora, non abbiamo tempo
per gli intellettuali -
- Presento il mio ultimo libro, vieni? –
- Ma certo, perché non dovrei? Sai quanto apprezzo
queste cose -
- Senti, se non ti va non venire. È il mio lavoro -
- Il tuo lavoro,
come lo chiami tu, è un hobby da finocchi -
Prima che Marco potesse rispondere si accorse che non
riusciva più a sopportare la sensazione di bagnato e apiccicosità alla punta
dell’uccello. Quindi, come se fosse un gesto impavido e cavalleresco allo
stesso tempo, si grattò apertamente di fronte a tutti quanti quei gloriosi
lavoratori manuali e se ne andò senza dire niente. Era stato indubbiamente uno
degli episodi più virili della sua vita. Uscendo dal capannone che suo padre si
era comprato con tanto sudore e tanta fatica e tanto che il sudore mescolatosi
alla fatica era diventato un potente agente di rottura dei coglioni altrui e
soprattutto di quelli del figlio Marco vide passare un’auto non velocissima ma
a velocità comunque un po’ troppo sostenuta e si domandò se forse sarebbe stata
una buona idea buttarcisi sotto. Facendo un rapido calcolo le cose stavano
all’incirca così: Chiara lo riteneva uno smidollato e se non lo lasciava è
perché per lei sarebbe significato semplicemente cambiare il modo di restare in
solitudine. Lui non l’amava, ma ci stava perché, ehi, cosa c’è di meglio per
uno scrittore che avere una storia con una scrittrice che non riesce a
pubblicare e lo tormenta con le sue paturnie? Suo padre lo disprezzava mentre
sua mamma, al bisogno, gli telefonava per dirgli che era bello e in fondo probabilmente
lo disprezzava anche lei reputandolo bellamente un bimbo invecchiato male a
traverso di anni consumati a soddisfare aspettative esageratamente
irrealistiche. Ma lui non era così deficiente da pensare di poter andare avanti
come se niente fosse. Non era così imbecille da lasciare che gli ultimi
brandelli di dignità rimastigli attaccati ai denti venissero inghiottiti dal
gorgo nero della Signora Verità. Poteva morire e la scelta era solo la sua.
Perché non farlo? Libertà a disposizione, bastava volerlo. Finito di pensarlo
l’automobile ormai passata – una vecchia Volkswagen Corrado di colore blu e con
le gomme praticamente lisce per i tanti chilometri fatti plausibilmente tutti
in città – fece una piccola scodata in corrispondenza dell’ingresso alla
rotonda e se ne andò. “Sembra una gallina che rischia di cadere in terra per
una scorreggia”, pensò Marco nello stesso istante domandandosi se per caso
cotanta frase potesse mai entrargli con sciolta adeguatezza in qualcuna delle
sue storie da quattro soldi.
Pochi giorni più tardi Chiara – che ancora non si era
decisa a tagliarsi a capelli mentre continuava a lavarseli come se fosse
l’unica e ultima cosa che avrebbe fatto prima di morire e assistere da anima
sopraelevata ai vivi al suo funerale in una chiesa che si immaginava piccola ma
molto carina – andò dal suo analista, un
tipo sui cinquant’anni che esibiva cravatte strane, secondo lei per dare ad
intendere che aveva trafitto e conquistato con sicura perfezione quel difficile
equilibrio fra anticonformismo ruffiano e piacevole saggezza da buon parlatore.
Il dottor Franz, – che in realtà si
chiamava Alberto Saldani mentre a lei piaceva chiamarlo così per fare
letteratura da baraccone – viveva e lavorava in una casetta in stile Liberty al
primo piano. Usualmente la riceveva in uno studio in cui la luce pur entrando
poco lo faceva sembrare un sacrario di illuminazione e rinascita. Era sicura
che l’effetto fosse voluto ma preferiva pensare che fosse tutto originato da un
misterioso gioco di rimandi ed esoterismi di cui lei, per chissà quale arcana
ragione, sarebbe stata nello stesso modo vittima e regina. All’inizio il dottor
Franz le faceva domande convenevoli e apparentemente innocue. Come è andata la
settimana. Come va con Marco. Come ti senti in questo momento. E alla fine
affondava il colpo con “Il suo romanzo?”. Lei si schermiva appena un po’, si
sistemava il reggiseno sempre stretto sotto la maglie beige che adorava
indossare e mettendosi quasi a gambe incrociate sulla poltrona estraeva il suo
revolver interiore e iniziava a rispondere ai colpi al meglio che poteva. Ma
sapeva che avrebbe perso, e in fondo non era una problema.
-Il mio romanzo sono io-
-Oh, prospettiva interessante. Quindi lei non scrive?-
-Sì-
-Voglio raccontarle una storia, se ha la pazienza di
starmi a sentire-
-Va bene-
-Tanti anni fa, mi pare cinque o sei, una ragazza un po’
problematica venne da me chiedendo aiuto. Pensai subito che stesse fingendo,
che fosse il classico caso di donna un po’ viziata che pur di non scendere a
patti col mondo estetizza i suoi problemi per viverli più intensamente. Mi
segue?-
-No, conosco già la storia-
-Me l’aspettavo ma allora la smetta-
-Di far cosa?-
-Di essere un romanzo, accetti i limiti, i vuoti
dell’esistenza e come tutti, più o meno, potrà godersi anche lo sconfinato e i
pieni di essa-
-Dottor Franz, sì, ho capito… Ma non posso-
-Perché mai?-
Chiara non rispose, si rimise seduta in modo composto e
per cambiare discorso prese a occhieggiare la libreria alle sue spalle.
-Lei dottore legge molto?-
-I libri o le persone?-
-Ecco, vede. Allora è d’accordo con me-
-Cosa intende?-
-Anche lei è un romanzo-
Be', forse sono parte
del suo-
-Può darsi-
-Chiara, mi ascolti-
-Eh...-
-Si lasci possedere da un uomo. Si lasci amare-
-Ho paura-
-Lo so, è per questo che siamo qui-
Scese un silenzio
caldo come una madre che ama fino alle fiamme e alla cenere. Per una frazione
di secondo tutto il mondo sembrò essersi fermato dentro a quella stanza da cui
ogni grande evento della storia dell’uomo, da quel momento, sarebbe
ineluttabilmente dipeso. I colori più forti. La luce più dolce. Il viso del
dottor Franz che aveva assunto lineamenti irrealistici, quasi come quelli di un
bellissimo quadro ad olio. Poi Chiara intravide fuori dalla finestra la
megabombola grigio metallo di un camion per l’autospurgo, “Spurghi
Bastogi&Figli”. Era molto rumoroso.
-Bene, Chiara. Ci
rivediamo martedì prossimo-
-Va bene.
Arrivederci-
Uscendo quasi
inciampò sul tubo che entrava dentro la fogna per svuotare dagli escrementi gli
impianti del condominio in cui viveva il suo analista. Si mise a ridere, il
mondo le sembrava simpatico. Era una bella giornata.
Verso l’una di giovedì fuori pioveva talmente forte che
le auto sulla strada facevano sembrare la gente seduta al volante degli
astronauti un po’ autistici immersi nella loro dimensione interiore e pure
nervosamente concentrati a svolgere il compito che gli era stato assegnato:
andare ed arrivare, destinati ad esplorare ma soprattutto a sopravvivere. L’acqua
colpita dalle ruote e dalle frenate faceva schizzi di altura poderosi e
violenti in direzione dei margini o del centro della strada, trafitti per un
secondo da un timidissimo raggio di luce dando loro la forma e la
manifestazione di minuscole ed ineluttabili esplosioni cosmiche, con la
propaggine di sole e gocce che tentavano di librarsi nell’aere e che lo
facevano inesorabilmente verso il basso vuoto di un giorno triste e nero come
l’oscena enormità dell’universo lontano dalla Terra. Sulla superficie del manto
stradale lunghissimi rigagnoli di fango e pioggia potevano richiamare le esaltanti costellazioni di
misteriosi pianeti e remotissime stelle disposte in un infinito flusso di cui
l’uomo non poteva far parte. Quando Saverio uscì dal lavoro ci provò a ogni
modo a evitarlo ma non ci fu niente da fare e si sentì perduto come sempre. Lì
dentro era il capo. Là fuori non era nessuno. Proprio non capiva che cosa
diavolo si sarebbe aspettato il mondo da lui in quelle circostanze di non
chiara attribuzione di competenze e ruoli. Doveva attraversare la strada,
badare a che non passassero auto mentre c’era anche lui per non esserne
investito. Non dimenticare dove aveva piazzato l’automobile per andarla a
recuperare e non rischiare che i suoi operai lo guardassero vagare perso nel
parcheggio sospettando che fosse già rimbambito. Ma poi? Poi che cosa sarebbe
stato? Che cosa avrebbe fatto? Prima che un’auto guidata da una donna molto
brutta e grassa con la faccia piena di nei gli passasse davanti ebbe la fortuna
di girarsi per tornare in direzione del suo amato capannone adibito, da sempre
e per sempre, alla produzione di minuteria meccanica. Appena di fronte al
cancello pur a bassa velocità fece uno schizzo tremendo (che pure ebbe una
funzione positiva, nascondendo alla perfezione gli orribili nei della donna),
che lo avrebbe inzuppato dalla testa ai piedi rendendolo ridicolo.
Quindi aveva fatto la scelta giusta. Aveva fatto bene a
tornare dentro. Quando gli operai lo rividero assunsero un’espressione educata
ma palesemente scocciata.
-Signor Saverio, è successo qualcosa?-
-No, no, ragazzi, tutto a posto-
Lo lasciarono passare oltre il capannello che si era
formato fuori dagli spogliatoi dove già si erano cambiati per andarsene. Il più
giovane di loro, con i capelli ricci e lunghi, si lasciò scappare il gesto di
toccarsi le palle cercando di far sorridere gli altri. Ma fortunatamente
Saverio non ebbe modo di accorgersene. Era ancora perduto come pochi attimi
prima.
-Devo solo controllare una cosa in archivio- disse loro
con tono leggermente più arrogante, e ben felice che con questa risposta
potesse salire le scale e sparire dalla loro vista.
-Ah, d’accordo, a domani signor Saverio-
Una volta al piano di sopra si sedette alla poltrona del
suo ufficio, si sistemò cercando di sfruttare al meglio le comodità delle
imbottiture di quell’orribile oggetto di pelle viola perché l’aveva pagata
salata e gli sembrava ragionevole sfruttarla e si mise a pensare. Ma smise
subito perché pensare non era mai stato il suo talento e lo faceva somigliare
troppo a quello smidollato di suo figlio. Al contrario, si lasciò andare a sé
stesso, aprì il cassetto più vicino dello schedario a più comparti che aveva
fatto acquistare alla segreteria con i fondi del Comune e ne trasse fuori la
pistola, una Beretta calibro 9 Parabellum, che teneva lì, chiusa a chiave, da
quando aveva aperto la nuova fabbrica. La soppesò nella mano destra e
sorridendo, a voce alta, disse a sé stesso, “Be’, questo bell’aggeggio non
funzionerebbe mica senza la mia minuteria!”. La pioggia fuori continuava a
cadere, calma.
Il dottor Saldani, più o meno nello stesso momento,
decise che era ancora troppo presto per uscire di casa a fare un giro con il
cane (le malelingue, la gente avrebbe detto la verità, e cioè che non aveva
abbastanza pazienti a tenerlo impegnato) e quindi impugnò un libro di filosofia
medievale per ripassare in modo del tutto inutile il buon vecchio dibattito,
mai concluso, fra i nominalisti e i sostanzialisti. Il nome era la cosa o la
cosa era il nome? Negli ultimi decenni la teoria più accreditata – come lui
sapeva bene e in maniera del tutto futile – era da intestarsi al caro Kripke,
un tizio con la faccia e probabilmente anche con la testa da matto che aveva
concluso (be’, “concluso”, diciamo) che le parole hanno esclusivamente valore
designativo e che non c’è alcun rapporto oggettivo fra referente e reale. Ciò
non entrava in aperta contraddizione con la ben nota distinzione di Frege fra
senso e significato e pure apriva inquietanti scenari sul futuro della
filosofia analitica e di quella linguistica in particolare. In terapia la
questione poteva avere un suo senso perché se c’era una cosa che aveva imparato
in vent’anni di professione era che i suoi pazienti avevano tutti in comune
l’assoluta incapacità di distinguere in modo anche solo appena accettabile la
differenza fra ciò che sapevano descrivere (parola) e ciò che davvero era
(cosa). Arrivato a pagina tre il Saldani trovò una macchia di unto, e capì di
avercela fatta lui quando ancora da studente aveva usato quel libro per
preparare un esame mentre faceva merenda con una fetta di pane all’olio di
oliva e farlo gli era sembrato il modo giusto di non perdere neppure un secondo
del suo diritto di godimento. Ma siccome era passata mezz’ora uscì finalmente
di casa e passo dopo passo attraversò la sera di Modena. La sua testa, che lui
riteneva di tenere sotto controllo, iniziò in realtà ad aggredirlo in ogni
direzione come un pugile esperto, carogna come un assassino, con domande di
ogni genere che solo riguardavano la signorina Chiara. Si domandò se lei avesse
capito il messaggio sottile: non voglio che tu pensi io sia interessato alla
tua scrittura, né al tuo aspetto fisico. Devi capire – puoi? – che non hai
niente di speciale ed arrenderti all’evidenza della tua normalità appena un po’
graffiata in superficie dalle tue pretese intellettuali. Saldani camminava
pensieroso e avrebbe davvero voluto sapere se la signorina Chiara era stato in
grado di capire o meno una cosa tanto difficile. Primo, perché avrebbe
implicato un cambiamento nella sua pur vasta percezione di un mondo interiore
intenzionalmente ingarbugliato. Secondo,
– e questo vale, ahimè, per tutti – perché a nessuno piace sentirsi dire
da qualcuno che se ne intende di non essere una persona diversa, speciale...
Saldani si convinse di aver fatto la cosa giusta e mentre maledisse un soffio
di vento che gli raggelò il collo si chinò verso il cane per slacciarsi il
guinzaglio e lasciare che andasse a fare la cacca da qualche parte. Tanto per
fare qualcosa che desse un senso all’istante si mise a osservare un paio di
figure umane nella distanza: sembravano giovani, avevano entrambi il cappuccio
in testa e non si capiva se stessero litigando oppure no. Erano troppo lontani.
Alla fine però tutto quanto si chiarì: il più basso dei due colpì con qualcosa
di imprecisato il suo compare, che cadendo a terra si aggrappò alla giacca
dell’aggressore facendo cadere anche lui. Entrambi a terra, adesso, si stavano
azzuffando con una gran foga e davvero non era per nulla chiaro se fosse il
caso di intervenire o di lasciar perdere. Il cane corse verso di loro e
abbaiando li mise entrambi in fuga in direzioni opposte, tanto che il dottore
fu ben contento di non dover fare nulla. Per curiosità, comunque, volle avvicinarsi
al punto esatto in cui si erano picchiati e si accorse che in terra c’era
qualcosa. Lo raccolse, lo mise in tasca e tornò a casa. Aveva sempre sostenuto
che le droghe sono pericolose perché rovinano il cervello dei giovani che quasi
sempre non hanno reali motivi per soffrire dell’esistenza. Lui, invece, non era
né giovane né tantomeno felice. Oppure non era vero un bel niente e gli andava
semplicemente di fare qualcosa di pericoloso in modo del tutto inatteso mentre
attendeva che il cane tornasse dall’aver fatto la cacca. Insomma, poteva
drogarsi: alla moglie non avrebbe mica
detto nulla. Nascose la dose nella tasca piccola che aveva nei jeans e poi
decise che non avrebbe mai più cercato di illudere i suoi pazienti che la vita
avesse qualche regola o fosse degna. Dolore, insensatezza, vuoto di confine e
di traguardo, solitudine, deserto, cattiveria… esistere era solo questo e poco
altro. Perché continuare a nasconderlo? Lo avrebbero pagato lo stesso. E in
fondo di Chiara gli era piaciuta un’unica, strana cosa: solo lei aveva capito
che a indurlo a fare quel lavoro da ascoltatore professionista era stata una
concezione della vita triste e disperata. Nessuno vuole curare se prima non ha
sofferto. O se lo vuole, finge. E prima o poi la pagherà. Quindi è meglio
drogarsi.
I giorni continuarono a passare sulle teste di Chiara e
Marco come strisce di fumo un po’ discole che abbandonano la torre del camino
per far dispetto alla temibile arroganza del fuoco: sembrava che l’incendio, o
il lento ma inesorabile bruciarsi della loro relazione alla fine, non riuscisse
a riguardarli più di tanto: ormai si erano socchiusi l’uno e l’altra in delle
rispettabilissime bolle di solitudini leali nei confronti della propria paura
di dover cambiare qualcosa. Sbirciavano fuori solo per esser sicuri di non
doversi proteggere ancora di più, come escursionisti in tenda sulla cima di una
montagna. Nel gelo, nel mezzo alla natura folle e violenta. Il fumo continuava
a salire e tutto andava in cenere senza che fosse possibile immaginare un esito
diverso per quelle stronzissime fiamme. Quando Chiara parlava con sua sorella –
Lidia, una ragazza di venticinque anni il cui più grande problema era stata la
presa in giro delle amiche perché non sapeva parcheggiare – provava stranamente
un senso di rilassamento. Testimoniare beatamente che nello stesso modello di
esistenza umana a cui apparteneva lei ci poteva stare anche una viziata col
cervello incartabile da un coriandolo e incapace di capire concetti più
complessi di “serata alcolica in discoteca” le rendeva possibile sperare che
prima o poi sarebbe capitato anche a lei. Lidia ovviamente di Chiara pensava
tutto ciò che riusciva a pensare, cioè molto poco e molto male: che era strana,
che non si sapeva divertire, che aveva sempre il muso e che la invidiava per la
sua vita. Il fatto che poi fosse tutto vero non diceva assolutamente nulla
della completa disabitazione del cervello di Lidia. Intuiva alcuni aspetti
della realtà del rapporto con Chiara in modo del tutto istintivo e materiale.
Istinto e materia che erano i tratti veramente caratteristici di un carattere
che stava dentro la sua persona come una chiave nella serratura. Adesso erano
sedute sul muretto e Chiara fumava per non dover avere troppo a che fare con
Lidia. Simulava una posa scomoda e con gli occhi incautamente esposti al sole,
che strizzava al limite del non vederci più un cavolo, tanto che in maniera se
possibile ancora più ipocrita estendeva le difficoltà di vedere a quelle di
sentire la voce delle chiacchiere di Lidia, che al contrario stava
perfettamente morbida e odalisca con le gambe intrecciate in aggraziato
equilibrio e le mani – smalto rosso e unghie laccate a specchio – poggiate
studiatamente sul grembo a esibire femminilità e desiderio. Il tempo era così
bello che dava noia essere di cattivo umore, almeno a Chiara, sempre dalla
parte sbagliata delle situazioni.
-Perché non lo lasci?
Sei giovane ancora…-
-Lidia, sì, hai ragione. Però non dire cazzate-
-Come scusa?-
-Grazie, me ne vado. Ci vediamo poi-
-Ciao…-
Lidia si era leggermente scomposta per l’irritazione e
tornò alla posizione indubbiamente donnesca di prima: Chiara si girò di spalle
fingendo di guardare gli orari dell’autobus e la guardò di nuovo. Sembrava una
statua in mezzo al giardino. Quando l’autobus arrivò all’improvviso Chiara lo
fece passare oltre e attraversando la strada tornò a casa perché aveva qualcosa
da raccontare al suo PC. Sentiva sui polpastrelli il battere dei tasti. Forse,
pensò, era davvero una scrittrice e dubitarne ogni secondo dannato la rendeva
ancora più scrittrice e… aveva fame.
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