Psicofarmaci, pronto soccorso, ultimi tempi

 Prendo 3 psicofarmaci al giorno ma li sto scalando, cioè cerco di diminuirli lentamente per non avere un'altra crisi psichiatrica che - lo dico agli edotti idioti che vaneggiano di esoterismo, amore universale e altre amenità e poi accusano gli psichiatri di essere solo somministratori di camicie di forza chimiche - è più che orribile. Uno serve per la psicosi, un altro per gli scatti di ira, l'ultimo per farmi dormire. E il mio fegato è debole, quindi prima o poi ne pagherò le conseguenze e già mi vedo in un letto di ospedale a supplicare qualche parola gentile dall'infermiera mentre sto morendo di cancro al fegato e i medici discutono su quale campo di tennis prenotare prima che sia finito il turno. Negli ultimi cinque mesi sono stato al pronto soccorso per quattro volte. Ve le dirò tutte. La prima per un dolore insopportabile alla gamba sinistra, che ancora mi tormenta. Un dottore di meno di trent'anni, cognome da terrone e faccia simpatica, ha comandato all'infermiera di farmi una flebo di Contramal, un oppioide che si dà anche ai malati terminali. La seconda per un occhio appannato. Il medico - un oculista anodino ma divertito e leggero nel visitarmi, con l'infermiera che non sapeva dove trovare le garze che gli aveva appena chiesto - mi ha messo un collirio colorato in ambo gli occhi e poi ha sentenziato che ho un tempo di rottura ridotto: cioè devo sbattere gli occhi più di frequente perché lacrimano poco. La terza volta per un attacco di panico terribile: è venuta l'ambulanza a casa e mi ha portato in ospedale, mentre le prime due volte ero andato da solo. Ero completamente fuori di me quindi ricordo solo l'anestesista scazzata, sui cinquant'anni, che ha strillato ai portantini di non lasciarmi lì in stanza con lei. Non sembrava molto felice del suo lavoro, eppure è quello che vorrei fare io. Poi una mano sconosciuta mi ha porto una pasticca grande quasi quanto un biscotto, bianca che più bianca non si può. Ero su uno di quelle poltrone dove ti mettono per misurarti la saturimetria e la pressione. L'ho inghiottita e sono riuscito a dormire un paio d'ore (erano tre giorni che non chiudevo occhio, per questo ero impazzito). Alla fine mio padre è venuto a prendermi ed è finita lì. La quarta volta risale a tre settimane fa. Ero in casa, ben impacchettato con i soliti veleni della psichiatra ma una volta a letto mi sentivo malissimo, non riuscivo a rilassarmi né a prendere sonno. Sembrava il ritorno di un nuovo attacco di panico. Invece si è fermato tutto a un'ansia molto forte. Erano le undici spaccate di sera e buio pesto fuori. Ho preso l'auto per fare un giro per vedere se mi calmavo ma guardacaso sono capitato davanti al pronto soccorso e, lasciata l'auto oltre la sbarra, sono andato dentro. Prima di farlo ho sbirciato dentro alla guardiola, dove tengono un handicappato che passa la nottata a guardare la TV a far finta di controllare chi entra e chi esce. Un tipo con la barbetta incolta, sui quarant'anni e che anche se era seduto pareva piuttosto basso. Al pronto soccorso mi ha accolto un infermiere grassottello, umbro e già molto indaffarato che mi ha rimesso sulla solita poltrona, gialla come il catarro. Mi tremavano le gambe, le muovevo come se fossero cosparse di granchi velenosi. Dopo circa mezz'ora mi ha portato nella stanza dei trattamenti medici e di turno c'era un medico albanese, lo stesso che mi ritrovai quando mia mamma era terminale e a pochi giorni dalla morte. Non mi ha detto nulla ed è rimasto dietro al PC. Poi da lontano si è rivolto a me e mi ha detto di rilassarmi, che tanto aveva chiamato lo psichiatra di turno: è arrivato in effetti un tipo della mia età, un po' azzimato e molto rilassato, uno che deve avere un'autostima grande così. Ironico che fosse lo stesso a cui mi ero rivolto qualche giorno prima per iniziare una psicoterapia e che poi fossi stato rifiutato perché a detta sua aveva troppi pazienti. Il dottor R., l'ennesimo oltre la decina psichiatra con cui ho avuto a che fare, è stato abbastanza bravo. Mi ha chiesto che cosa prendessi, mi ha fatto parlare un po' e alla fine mi ha dato un En da 2 mg. "Non guidare, però". Così mio padre è dovuto tornare a prendermi. Una volta a casa non ero ancora tranquillo e così ho preso un altro En da 1 mg. Alla fine ho dormito, sognando di dover calcolare la traiettoria di un razzo quando io di matematica non ci capisco un accidente. La chimica invece non tradisce quasi mai, nonostante non capisca neppure lei. Ecco, signori della corte. Questa è stata la mia vita negli ultimi cinque mesi, oltre all'operazione alla gamba che a quanto pare non è servita a nulla o quasi. Con le donne parlo solo mediante internet e se ne fregano tutte. Non piaccio. Però ho una missione, laurearmi in medicina. Non ci credo e ho la sensazione che non ci riuscirò mai. Ma insisto. Qualcosa vorrà pur dire. Ebbene, vi ho annoiato? Non me ne frega un cazzo. Si tratta della mia vita, l'ho messa in piazza. Nessuno vi chiede di restare. Cordialmente, 


Q.

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